mercoledì 12 agosto 2009




TEORIA E PSICOLOGIA DEL COLORE E DELLA FORMA


Introduzione
Siccome cultura è tutto quello che si ricorda, dopo aver dimenticato quello che si impara a scuola, sarà mia cura prevedere amnesie didattiche da guarire con il semplice metodo: “facciamo finta che nessuno vi abbia detto niente e ricominciamo da capo”. Ho sempre detestato quelli che dicono “come certamente saprete” e, quindi, questo sarà uno dei pochi errori che non mi capiterà di fare. Aggiungo anche di aver sempre sfogliato con pigrizia il vocabolario, mi sembra eccessivo che altri lo debbano fare a causa mia. Mi verrà piuttosto facile essere semplice. Quello che mi rallegra è che non mi costerà nessuna fatica.La scommessa di queste pagine è fondamentalmente una scommessa persa in partenza perché sarà come voler far entrare un tavolo da biliardo dentro una scatola di cioccolatini. Gli argomenti che proveranno a trovare posto in queste poche righe hanno la caratteristica di essere piuttosto voluminosi ed in un certo qual modo complessi. Correndo il rischio di banalizzare la cosa, proverò a spiegare”con patate e cipolle” quello che normalmente richiede altro tempo e ben altri strumenti. Ho insegnato in una scuola senza la campanella, dove il registro non ha mai avuto alcun potere, perché le Accademie di Belle Arti, almeno per quello che riguarda i corsi complementari, funzionano un po' come il juke-box di una volta: se la musica che suoni non è di gradimento, quelli che dovrebbero stare ad ascoltare si alzano e se ne vanno via. Questo significa abdicare da subito a qualunque forma di potere che non sia costituita dalla parola e dagli argomenti che devono essere necessariamente interessanti e digeribili, se non si vogliono vedere passeggiare i ragazzi nel corridoio. Si passa, in sostanza, dall'idea di giudicare, alla consapevolezza di essere giudicati. I confini che sono stati messi lì per dividere la storia dall’arte, dalla scienza e dalle nuove discipline conoscitive, non hanno molto senso, se non quello di permettere ai singoli docenti di coltivare in santa pace i piccoli orti delle specifiche competenze. Si perdoni la leggerezza di chi ha sempre pensato che la cultura senza comunicazione è una inutile stanza chiusa a chiave piena di quadri che nessuno vedrà mai. Gli appetiti si trasformano in sazietà quando gli angoli di incidenza della fame e della tavola imbandita si completano a vicenda. Fiorenzo Mascagna



Linguaggio




Ad un certo punto della preistoria, in una notte di luna piena, l'uomo primitivo si ritrovò sulla riva del mare. Raccolse da terra un bastone portato a riva dalle onde, e, con quel bastone, tracciò un segno circolare sulla sabbia, poi rivolgendosi verso quella che presumibilmente era la sua compagna, indicò il cerchio della Luna. Questo aneddoto, che per esigenze di copione, voglio pensare come romantico, è la prima pietra di questo grande edificio costituito dal linguaggio, attraverso il quale ha potuto svilupparsi la storia dell'uomo. Accertato che i primi documentati tentativi di descrivere il reale furono pittorici e non verbali, per comprendere meglio il cammino dell'uomo che conduce fino ai nostri giorni, diventa in qualche modo necessario addentrarci nelle ansie che dovevano essere radicate in un individuo che, quando veniva la notte, non sapeva se tornava il giorno. Nel momento in cui l’uomo tracciò quel segno sulla sabbia, si ritrovò immerso non soltanto in un mondo della natura che non conosceva e che anzi temeva, si trovò immerso in un mondo fatto di linguaggio. Gli oggetti, per noi, sono le parole che li esprimono, i pensieri, sono le parole attraverso le quali pensare. Nel corso del tempo abbiamo dato significato alle cose e questi significati ci vengono restituiti e ci parlano alla luce di quello che ci abbiamo sedimentato sopra. L'uomo che percorre l'esaltante strada del progresso tende ad appropriarsi dei linguaggi del mondo. E’ così che la natura dapprima ostile è diventata una natura che ci parla. La nostra esistenza è diversa da quella del nostro simile che quando incontrava un animale non sapeva se era erbivoro o carnivoro o che quando si trovava di fronte ad un fenomeno naturale non sapeva se gioirne o provarne terrore. Da quei giorni sono cambiate tante cose e molte delle incertezze che lastricavano la strada dell'uomo hanno trovato soluzione. Si sono andate affinando le tecniche che hanno reso possibile la definizione di una linea evolutiva; eppure si andava a cavallo al tempo dei faraoni e si è andati a cavallo fino a tutto l’Ottocento. Il progresso di cui siamo beneficiari è cosa recente. Il vero grande impulso di questa costante rivoluzione lo facciamo risalire di solito al Rinascimento; come data ci è venuto comodo farla coincidere con la scoperta dell'America (1492). Il percorso dell'uomo è più complesso di quanto una presunta linearità della storia possa lasciarci immaginare. Non tutti hanno potuto incamminarsi nel sentiero aperto dai maestri e non poche delle tribù di questo mondo, attualmente, sono all'interno dell'età del ferro.Quando in pieno atteggiamento modernistico Picasso disse che tutte le epoche passate sono consegnate alla storia, mentre quella primitiva respira dentro di noi, intendeva sollevare una affermazione di valore che trova riscontro in quanto è stato detto a proposito del denominatore comune di tutte le civiltà del mondo, siano esse evolute o ancorate a stadi primitivi. Tutti abbiamo bisogno di mangiare, bere, fare l’amore, crescere i nostri figli, credere in qualcuno o in qualcosa. Da questo punto di vista, e non è un punto di vista marginale, tra noi e l'uomo primitivo non c'è alcuna differenza. Il cordone ombelicale che ci lega alle origini si salva costantemente attraverso i bisogni primari. E' proprio questo costante ritorno al passato che ci consente l'individuazione di punti fermi costituiti da autentici crocevia che, per comodità, chiamiamo rivoluzioni epocali. Primato linguistico. La vera grande rivoluzione per l'uomo avvenne quando, attraverso vari tentativi, scoprì di poter far conto sull'agricoltura. Circoscrivere un territorio non è soltanto compiere un'operazione sociale di carattere economico. E’ in primo luogo, dar vita ad una dimensione linguistica. L'albero incontrato durante la caccia non è lo stesso albero visto crescere all'interno di uno spazio delimitato. L'albero coltivato, da piccolo diventa grande: prima foglie minuscole di colore chiaro, poi l'albero cresce e si infittiscono i rami, le foglie si allargano ed i frutti aumentano di dimensione fino a completare il ciclo di crescita. L'albero perde infine le foglie, cade in letargo e si risveglia in primavera. Il “significante” albero, in questo caso, genera tanti significati, laddove invece l'albero incontrato durante l'esercizio della caccia, non conosciuto nel suo sviluppo, fa corrispondere ad un “significante” il significato del momento. In fondo la vera grande differenza che passa tra l’uomo ed ogni altro animale è nella capacità che l’uomo ha di far corrispondere ai “significanti” che ha a disposizione “significati” diversi. La differenza tra un musicista che compone musica ed un uccello che canta, non è nelle note che si mettono o nell'armonia che si ottiene. L'uccello che canta esprime un richiamo e quindi ad un “significante” fa corrispondere un solo “significato”, un musicista che compone musica, con sette note, fa tante altre cose, laddove l'animale resta a livello di segnale. Il linguaggio è valido in quanto esiste, non richiede alcun fondamento. Analizzarne livelli e comprenderne il funzionamento è senz'altro utile a chi deve farne un uso consapevole, ma per milioni di individui di diversa estrazione sociale e culturale che ne fanno uso per comunicare tra loro, è solo indispensabile che venga usato. D'altra parte, per questo ci è solo necessario nascere all'interno di una comunità. Dire che la diacronia si perfeziona nella sincronia è l'avere a che fare con forme linguistiche che si evolvono nell'adattarsi all'uso delle comunità sociali. I livelli del linguaggio. Il linguaggio è composto da “significante e significato”. Il bambino dice “mamma”: la parola “mamma” è il significante, il fatto che la mamma corra dal bambino quando viene chiamata, è il significato. La composizione del linguaggio è data da tre livelli: grammaticale, semantico e pragmatico. Semplifichiamo. Il bambino dice “mamma” e la mamma corre. La parola “mamma” è di livello grammaticale in quanto propria della lingua parlata dal bambino e dalla madre. Il bambino può chiamare la mamma per infinite ragioni; da un punto di vista grammaticale il bambino che dice “mamma” (perché è felice o perché ha paura) sono la stessa cosa, il come il bambino dice “mamma” sta ad indicare il livello semantico. Il livello pragmatico è dato da cosa il bambino vuole ottenere dicendo la parola “mamma”. Questi livelli sono propri di tutte le forme linguistiche fruibili e rappresentano la struttura del linguaggio, sia esso parlato che di altro genere. Vediamo se va meglio con un altro esempio. Il pittore dipinge un quadro tutto rosso. Il colore rosso è di livello grammaticale in quanto viene riconosciuto come colore rosso da chi guarda il quadro. L'artista decide di stendere il colore in maniera non uniforme: il come il pittore dipinge la tela è di valore semantico, il cosa vuole ottenere con il colore rosso ed il suo modo di utilizzarlo sul quadro è di livello pragmatico.Le funzioni del linguaggio.Non è finita, perché oltre che di tre livelli, il linguaggio si compone anche di due funzioni che corrispondono a quella comunicativa ed a quella espressiva. La funzione comunicativa rimanda ad un'intenzione chiara ed inequivocabile: può essere il linguaggio delle bandierine, il segnale di stop, quello di pericolo, il semaforo all'angolo della strada. La funzione puramente espressiva è un po' la nostra lingua personale quando vogliamo parlare a noi stessi senza farci capire dagli altri, è spesso il linguaggio dell'arte e della poesia, è il significante che si presta a molti significati, a differenza del linguaggio puramente comunicativo che fa corrispondere ad un significante un solo significato. Figuriamoci se il semaforo si prestasse ad una libera interpretazione da parte dell’autista, o se il segnale di pericolo fosse dipinto di rosa, che disastro.l linguaggio con il quale comunichiamo nei diversi ambiti della vita quotidiana non è mai del tutto comunicativo o del tutto espressivo. Se fosse del tutto comunicativo sarebbe piatto, se fosse unicamente espressivo risulterebbe incomprensibile agli altri. Le due funzioni linguistiche sono fondamentali perché rappresentano il limite entro il quale tutto il linguaggio si muove. Ci si avvale di entrambe le funzioni alternandone l'efficacia. Esattamente come tra il bianco ed il nero sono comprese la chiarezza e l'oscurità, così le due funzioni rappresentano le sponde entro le quali corre il fiume del linguaggio. Comunicazione ed espressione sono concetti polari, come sono concetti polari alto e basso, bello e brutto, giorno e notte. Per comprendere quanto la nostra esistenza dipenda da questo spostamento all'interno delle funzioni limite, basta ricordare che per noi un pensiero che non ha un suo opposto non esiste. Quando non sappiamo il significato di una parola è perché non ne conosciamo il suo contrario. Abbiamo consapevolezza del bello perché sappiamo cos'è il brutto, diciamo di una persona che è intelligente sapendo cos’è la stupidità nelle persone, ci diciamo felici perché per una volta almeno nella vita siamo stati tristi. La tendenza linguistica, è quella di utilizzare entrambe le funzioni contemporaneamente facendo in modo che l'una non disattivi l'altra. La nostra è una aspirazione all'equilibrio, è un po' il solcare questo ipotetico fiume tenendoci equidistanti dalle sponde, salvo avere una capacità tale di movimento che ci consenta di recuperare velocemente eventuali squilibri.



Dall’arte primitiva al Rinascimento




Sebbene l'uomo venga al mondo da sempre con lo stesso armamentario di occhi, cuore, braccia e gambe, ha preso coscienza della simmetria piuttosto tardi, almeno rispetto alle sue origini. La bellezza non nasce come ideale di umanità ma come forma studiata di rappresentazione; trova nel Neolitico, con la nascita della ceramica, il suo sviluppo. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è stato spesso descritto come indecifrabile e non coerente. L'uomo da cacciatore inaugura un tipo di vita più incline all'agricoltura e all'allevamento del bestiame. Siamo in presenza, senza alcun dubbio di quello che noi definiremmo progresso sociale. Ottomila anni fa a Gerico, non solo era conosciuta la ruota, ma già esisteva una organizzazione sociale del territorio. Le immagini organiche corrispondenti a rappresentazioni di animali, che avevano contraddistinto il Paleolitico, nel passaggio successivo (Neolitico), meglio conosciuto come età del ferro, cedono il passo a ripetitive ed ossessionanti rappresentazioni geometriche. La figurazione che, nell'epoca precedente, aveva sancito lo stretto legame tra esigenza vitale e manifestazione estetica del rito, inspiegabilmente perde la sua funzione principale di strumento evocativo. La storia ci ha abituati a far corrispondere ad epoche di benessere sociale un'immagine esterna, attraverso l'arte, dello stesso benessere. Il problema non è quello di far viaggiare necessariamente l'arte su una linea evolutiva, perché sappiamo che l'arte non ha evoluzione, è semmai uno dei modi attraverso i quali l'uomo vede il mondo. Il problema è di altra natura. Le rappresentazioni geometriche che hanno sancito piena consapevolezza della simmetria e la nascita della matematica come riflessione nei confronti dei risultati estetici, comportarono probabilmente un cambiamento radicale della visione del mondo.Magia e religione.Ricerche effettuate presso tribù aborigene della Nuova Guinea ci dicono che le figurazioni geometriche sono strettamente connesse ad un sentimento di paura, di ansia cosmica, e che attraverso il geometrico, si tenta di stabilire una forma di contatto con l'ultraterreno. E' come se nel Neolitico l'esistenza dell'uomo avesse trovato un nuovo inizio. Le manifestazioni estetiche legate alla magia che avevano rappresentato la volontà dell’uomo di procedere per conto proprio alla determinazione del destino, cedono il passo ad atteggiamenti di figurazione geometrica. Da un punto di vista linguistico il significante “animale trafitto” che, nell’epoca precedente, aveva un significato evocativo chiaro, cede il testimone ad un periodo fondato su presupposti religiosi. Il passaggio dalla magia alla religione evidenziato da un diverso linguaggio espressivo, pone la questione del fallimento in cui l’uomo si ritrovò dopo essersi reso conto di non riuscire, attraverso la pratica magica, a modificare gli eventi a suo sfavore. Questa sorta di ammissione di impotenza, provocò un diverso atteggiamento linguistico. La magia che era stata una protesi della sua stessa volontà si rivelò inefficace al fine del raggiungimento del proprio benessere sociale e individuale, quindi, la scelta più naturale fu quella di delegare a spiriti più potenti l'azione diretta nei confronti degli eventi. L'astrazione ed il linguaggio geometrico meglio si adattano a questo tipo di comunicazione rivolta all'immateriale. Il passaggio indicato determinò probabilmente un'ansia cosmica tale da generare profonde incertezze.Astrazione.Con la scoperta della ceramica si inaugurò una nuova fase rivoluzionaria rispetto a quanto l'uomo aveva prodotto in precedenza. La consapevolezza della simmetria gestuale, stimolata dalla costruzione di oggetti circolari, implicò anche un altro tipo di riflessione riferita all'oggetto costruito che, se da un lato diventò contenitore, dall'altro evidenziò la sua caratteristica di superficie adatta ad accogliere motivi decorativi. Nella sostanza, l'uomo si trovò a trasferire il suo pensiero figurativo dalla parete della caverna al vaso. Un'operazione del genere implica notevoli capacità di astrazione, perché come è ovvio, quello che poteva essere fatto su una parete, non poteva essere contenuto nella ceramica. Quando si dice che la matematica nasce come riflessione sui risultati artistici, si fa riferimento a questa capacità di astrazione che nel Neolitico trovò terreno fertile in seguito all’esigenza di ridurre la figurazione a simbolo. Tra la formula matematica e la riduzione a simbolo della figura non c'è differenza. In entrambi i casi il concetto non viene soppresso ma dominato. L’uomo riferì a segni e simboli situazioni reali, questi segni e simboli potevano essere letti e prodotti da chi deteneva la chiave di quella forma di linguaggio. E' quello che potrebbe capitare a noi entrando in un'aula dove si insegna fisica. Troveremmo, scritti alla lavagna, incomprensibili segni. Quelli che per noi sarebbero incomprensibili segni, per gli studenti di quella facoltà sono formule dalle quali ricavare un pensiero matematico.Bello e vitale.Vitalità e bellezza sono gli elementi distintivi dell’arte, viene spontaneo assimilarli alle due funzioni limite del linguaggio, (comunicazione ed espressione). Possiamo dire che costituiscono l’ossatura di qualsiasi produzione estetica. Se la vitalità aveva contraddistinto il Paleolitico, determinando nell’arte, vincoli di indissolubilità con le esigenze primarie della vita terrena, il Neolitico attraverso il geometrico pone l’accento sul controllo matematico dell’oggetto estetico. Il ritorno successivo alla figurazione organica che ritroviamo nella fase “sincretistica” fu un tener conto delle esperienze precedenti. Ricomparve la figura compresa entro uno schema coerente e la selvaggia immaginazione dell’uomo, per mezzo della geometria venne definitivamente addomesticata. Una sempre maggiore capacità di modulazione tra vitalità e bellezza permise la realizzazione del “classico” che è presenza nell’opera di queste due funzioni nella stessa misura. Quello che ammiriamo nella classicità greca è il raggiungimento di un equilibrio difficile da raggiungere ed ancor più complicato da mantenere. Da questo momento la conoscenza si fa “coscienza”del ruolo di queste funzioni dell’arte che, da puramente vitale o estetica, diventa politica. Se da un lato si assiste alla progressiva perdita della naturalezza che aveva caratterizzato i periodi precedenti, dove l’uomo nasceva necessariamente artista, dall’altro ci si avvia verso la costruzione di un linguaggio estetico di natura sincretistico, in grado cioè di parlare una lingua rivolta agli spiriti e all’uomo. La costruzione del tempio, la scultura che raffigura la divinità ne sono l’esempio eloquente. Se in Grecia ha potuto svilupparsi un’arte che non esiteremmo a definire bella e vitale, questo è stato possibile in primo luogo grazie all’esigenza di raffigurare le divinità. L’immagine divina compresa dentro uno schema coerente è la costruzione del corpo inteso come casa che deve ospitare uno spirito perfetto e sovrumano. Il contenitore dato dal corpo, deve essere altrettanto perfetto come lo spirito che ospita. Quello che la “paganità” ha evidenziato è l’idea di fusione tra perfezione materiale e immateriale. Il classico è il raggiungimento di questo equilibrio nella sua massima espressione di vitalità e bellezza. Decadenza e bellezza. La decadenza nell’arte non corrisponde alla perdita della funzione estetica della bellezza, ma alla sua stessa esasperazione virtuosistica che tende a svuotare la forma, privandola del contenuto. La differenza tra l’originale della scultura greca e la copia romana non è nella riproduzione delle vesti, è nella non riproducibilità dello spirito che ha animato l’opera. Il declino di ogni periodo storico è caratterizzato da potenti manifestazioni esteriori. La classicità che aveva raggiunto con Fidia questo meraviglioso equilibrio tra vitalità e bellezza, nell’epoca ellenistica si dissolve nel virtuosismo del panneggio. Più o meno il sommario dell’arte, dal punto di vista della psicologia della forma, può essere compreso tra il Paleolitico e la stagione ellenistica, almeno per quello che riguarda il rapporto tra vitalità e bellezza. Costruito il precedente il resto è modulazione degli elementi che ne hanno stabilito l’essenza. E’ come dire che da questo momento in poi, semplificando di molto, la questione dell’arte diventa una faccenda di “gonne lunghe e gonne corte”. Se l’esteticità della copia romana ha prodotto una inevitabile frattura tra arte e filosofia, di certo ha inaugurato, attraverso la tecnica, una stagione caratterizzata dal forte legame tra arte e urbanistica, tra ritrattistica e politica. Racconto e uso politico dell’arte. La villa romana, la città abbellita, la pianificazione urbana, corrispondono ad un uso politico dell’arte, chiamata a corrispondere ad una precisa esigenza estetica di immagine del potere. Torna in gioco il rapporto tra comunicazione ed espressione. Se l’arte greca ha potuto essere classica in quanto espressiva e comunicativa, l’arte romana, più spregiudicata, sposta l’attenzione su quell’elemento comunicativo che tende a somigliare allo spot pubblicitario, che poi, altro non è che l’autoaffermazione del prodotto visibile e visivo. Questo tipo di spostamento funzionale all’opulenza di una società votata a manifestazioni di potere, si serve della potenza comunicativa dell’arte e ne fa uno strumento indispensabile al racconto. L’arte che fa a meno di se stessa per corrispondere ad una precisa volontà esterna è di fatto monca, apparentemente forte ma sostanzialmente fragile, perché non sostenuta da un’anima vitale. Dopo tutto se è vero, ed è vero, che le idee profonde non sono affatto comuni e che le idee comuni non sono affatto profonde, è chiarito il meccanismo che può fare dell’arte uno strumento di propaganda. Messa fuori gioco la contemplazione che è la principale condizione che l’arte ha per continuare se stessa, resta l’arte come narrazione dell’evento, dove a decidere è l’evento stesso. Le dominazioni barbariche successive e la conseguente riduzione a caos di un ordine stabilito hanno prodotto quel naturale ritorno al punto di origine della cosa, dove il potere non poteva essere più rappresentato dall’uomo in quanto tale, ma dall’uomo al servizio di un potere divino, meglio se elemento unico ( in teoria della percezione diremmo cosmogonico). Non è che la consapevolezza divina sia stata inventata apposta, diciamo semplicemente che ad un certo punto della storia è tornata utile.Simbolo e religione.E’ così che il Cristianesimo è diventato non soltanto un chiaro punto di riferimento, ma anche un irrinunciabile momento di purificazione. La nuova religione poteva non avere fortuna “politica” se non si fossero presentate le condizioni adatte per il suo radicamento. In questo discorso c’entra poco il rapporto tra popolo e fede. Non si tratta di mettere in dubbio o meno l’autenticità del pensiero teologico. Il ragionamento riguarda l’assunzione da parte del potere di un nuovo status politico. Quanti siano stati i veri credenti da Costantino in poi questo lo sa soltanto Dio. L’evidenza suggerisce analisi e riflessioni di altro tipo che ruotano attorno al dubbio che probabilmente senza lo “sponsor” del potere politico il Cristianesimo avrebbe avuto di certo strade più tortuose da percorrere. L’Era cristiana si apre azzerando di fatto non soltanto il calendario ma anche quella polifunzionale coscienza che aveva permesso contaminazioni di varia natura. La teologia nel sostituirsi alla filosofia riconduce al punto zero l’esperienza speculativa. Prende sempre più forma una visone teocentrica del mondo dove al centro c’è Dio e tutto il resto è pensato in funzione del mantenimento di questo primato. In questo lunghissimo periodo che arriva fino alla soglia del Quattrocento, si assiste ad una nuova edificazione della società che non è chiamata a tenere conto del passato ma, essa stessa si costituisce passato, nell’idea che tutto ha inizio e fine con Dio Questa sorta di impermealizzazione nei confronti della storia ha avuto tuttavia una sua gradualità, almeno nella fase iniziale, quando il Cristianesimo si è dovuto servire, mutandone il significato, dell’iconologia ellenistica e romana. Solo in un secondo momento la purificazione nei confronti della bellezza pagana sarà portata a compimento. Dentro questo ipotetico calderone ci finirà un po’ di tutto, ma in certi periodi storici, date anche le necessità del momento, diventa complicato andare per il sottile.Ai nostri occhi questo periodo appare piuttosto oscuro. L’immagine è quella di un uomo che sembra aver disimparato quello che le civiltà precedenti avevano lasciato in dote. L’arte che, nell’epoca romana, attraverso il racconto, aveva parlato all’individuo, in quella cristiana si muta in simbolo, tenendo di fatto una posizione opposta alla precedente. La croce come simbolo della cristianità assume valenza strutturale. La lingua parlata è la fede vissuta dai fedeli attraverso la croce.L’autentico miracolo fu la trasversalità sociale della nuova religione. All’interno del partito unico della fede ognuno poteva ritagliarsi un ruolo e per secoli è sembrato che ogni ruolo fosse quello giusto. Gli azzeramenti, se hanno un vantaggio, hanno quello di potersi servire di uno statuto che dal momento in cui è in atto, rappresenta passato e presente. Sorvoliamo sulle diverse interpretazioni che gli uomini hanno potuto fare della medesima cosa. Poco alla volta la nuova arte fondata su presupposti teologici, elabora un linguaggio proprio che è in primo luogo esigenza collettiva. Se l’arte romana aveva esaltato le gesta del vincitore ponendo l’accento sulla glorificazione umana, il progetto cristiano inverte questa tendenza. L’immagine che attraverso l’allegoria tende a diventare simbolo, si serve di fatto della funzione espressiva del linguaggio, in quanto lo spostamento è verso l’astrazione, ma allo stesso tempo la nuova esigenza impone che la sintesi ottenuta debba essere facile ed immediata. Da questo punto di vista la croce come simbolo assolve alla funzione data; laddove non è possibile stabilire simboli di facile lettura ci si rivolge all’allegoria. Ecco come il pastore che pascola le pecore diventa il Cristo con i suoi fedeli. E’ importante che la figura possa essere riconosciuta per quello che rappresenta.Vitalità e Medioevo.E’ la vitalità e non la bellezza la caratteristica dell’arte medioevale, proprio perché intimamente legata ad un pensiero teologico. E’la tecnica del mosaico quella che determina ancor di più il legame nei confronti della fede enfatizzando il carattere mistico della figurazione. Il mosaico semplifica il racconto, lo umanizza dal punto di vista della tecnica ma lascia alla luce il ruolo importante di completare l’oggetto. L’arte musiva si colloca a metà strada tra la pittura e la scultura, tra la figurazione e l’astrazione della figura stessa. L’immagine che offre è stilizzata e sfuggente, aneddotica e mistica nello stesso tempo. Attraverso il mosaico si compie quella purificazione dell’arte che era nel programma del Cristianesimo. Il nuovo panorama estetico culturale seppure diviso in microcosmi rappresentati principalmente da cattedrali e conventi è vincolato a quella unità di fondo sorretta dal principio teologico che ne regola i parametri di comportamento. Il collettivismo, la sobrietà, lo stretto legame con il territorio si fondono in quell’ideale architettonico che con il Romanico sfocerà nella nascita dei Comuni. E’ attorno al Mille che questa omogeneità sostanziale si rende manifesta e visibile. La città fortificata è di fatto un allargamento dei confini del convento; dentro vi si svolge una vita comunitaria. Nel Medioevo, più che in altri periodi storici, l’arte è pensata come funzionale alla società, la quale, non prevede la prevalenza “del genio”. La grande unità di segno che ritroviamo nelle città medioevali data dall’utilizzo delle pietre locali, è il risultato di una volontà che tende ad omogeneizzare l’operato dell’uomo a vantaggio del primato religioso. Il Romanico è un’altra fondamentale tappa di avvicinamento nei confronti dell’Umanesimo. Si incomincia ad avvertire il bisogno della borghesia, emerge la necessità che qualcuno si sbrighi ad inventarla. E’ con il Romanico che all’interno del pensiero teologico confluisce l’idea che in fondo Dio, creando l’uomo, non può avergli negato la possibilità di determinare il proprio destino. Appaiono meno blasfeme molte cose, soprattutto la ricchezza che poteva tornare utile come contributo alla stessa fede. Se l’uomo non si è ancora svegliato dalla notte medioevale, incomincia a girarsi nel letto e lancia precisi segnali alla storia che sta per accogliere il suo risveglio.La prospettiva è in qualche modo simbolo di questa nuova stagione e corrisponde a quello spalancarsi di finestre sul mondo, sinonimo di risveglio. La prospettiva nasce come esigenza di un’epoca e non come bisogno del singolo individuo. L’arte come attività metaforica si trasforma in specchio, all’interno del quale la nuova civiltà ammira compiaciuta se stessa. Fioriscono le botteghe, si inaugura una gara senza precedenti che ha come unico scopo la magnificenza. I risultati da ottenere attraverso i vari espedienti creativi e tecnici diventano metro di paragone con le civiltà precedenti. Il passaggio è quello che dal simbolo conduce alla figurazione intesa come esaltazione spirituale e materiale del bello. E’ la compresenza di comunicazione ed espressione, vitalità e bellezza, che fa del Rinascimento l’epoca classica per eccellenza. Quella che viene a stabilirsi è una dimensione fertile di attività metaforica che affonda le radici nel passato per edificare il nuovo. Tutto quello che, per ragioni di contingenza storica, non può fiorire all’interno di quest’epoca, diventa seme per l’epoca successiva. Il Rinascimento, attraverso la prevalenza del genio, si costituisce laboratorio del divenire. La storia non è mai tutta la storia possibile, è la traduzione in parole del gesto, dell’evento, dell’opera che si sostituisce al tempo, divenendo tempo di narrazione. Il percorso che dalla preistoria giunge al Rinascimento è la costruzione di una dimensione linguistica che da semplice strumento di sopravvivenza si trasforma in esercizio di potere. Se il Rinascimento attraverso Michelangelo aveva stabilito un nuovo parametro di rapporto tra società ed arte, alla critica di fine settecento spetterà il compito di solidificare ed ampliare questo trattato d’indipendenza dell’artista. Se la prospettiva rinascimentale si è costituita luogo consapevole d’incontro tra matematica ed arte, le grandi architetture del nostro tempo hanno costruito in seno a questo rapporto le loro fortune, seguendo di fatto il programma di genialità e logica della prospettiva. La grande differenza tra quest’epoca e quelle che l’hanno preceduta è nell’impostazione di un progetto legato al futuro. Probabilmente Leonardo sapeva già che non sarebbe riuscito a volare, ma aveva consapevolezza che qualcuno dopo di lui lo avrebbe fatto. E’ come se nel Rinascimento due grandi mani avessero preso l’età dell’oro spostandola dal passato al futuro. Creato un contenitore, tutto quello che ci finisce dentro è in qualche modo parente di una volontà. Pensare che un’epoca possa rappresentare solo il buono o solo il bello è pura follia, è corretto dire che ogni segmento di storia finisce con l’essere rappresentato dalla tendenza dominante. Non essendo questo, un libro di storia, ma semplicemente un ripercorrere a voce alta questioni che riguardano prevalentemente il rapporto dell’uomo con il suo tempo, viene facile farsi delle domande ed azzardare delle risposte. Da quando il mondo è mondo è il punto di vista che crea l’oggetto. Il punto di vista dal quale osservare questo srotolarsi di tempo, ha come fazzoletto di terra quella che non esiterei a definire curiosità storica. Chi ha avuto modo di frequentare punti di vista diversi a riguardo di medesime questioni, conosce lo spaesamento degli occhi fermi sul quello che ti viene detto e della mente ferma su quello che ti avevano raccontato precedentemente. Insomma, tante volte il giudizio ci è stato consegnato nelle mani come una scatola da aprire, quando avremmo voluto che l’avesse aperta qualcuno per noi, dicendoci esattamente quello che vi si trovava dentro. Se può essere comodo affidarsi all’autorità altrui, di fatto questo atteggiamento limita quella capacità critica che in presenza di fatti oggettivi dovrebbe fare la differenza tra l’uomo ed un pappagallo. La storia non è un archivio di fatti immutabili, è la capacità critica che l’uomo ha di leggere il passato. Il percorso fin qui tracciato che ha preso le mosse da una ipotetica spiaggia di un mondo molto lontano per approdare sulle rive del Rinascimento, è un percorso che segna le principali tappe del cammino dell’uomo dalla preistoria fino all’epoca moderna. I meno avvezzi alle questioni di storia avranno fatto un sobbalzo nel leggere che 1492 è la data d’inizio della modernità. Ovviamente si tratta di una convenzione che indica in questa data l’apertura ad un mondo nuovo. Se porsi un problema è già avviarlo a soluzione, il Cinquecento con Leonardo ha posto le basi per le scoperte di cui noi oggi siamo i beneficiari. Sebbene molte questioni che non esiteremmo a chiamare di scienza sono giunte a maturazione più tardi con Galileo e Newton. All’ epoca a noi nota come Rinascimento, si può riconoscere il merito di aver affrontato in termini di impostazione molte soluzioni alle questioni che noi oggi diamo per risolte. L’atteggiamento di un’epoca incline a ricercare soluzioni nuove, ha prodotto, attraverso il pretesto dell’arte, una qualità di ricerca non riscontrabile in altri periodi storici. Se Brunelleschi attraverso la costruzione della cupola di S. Maria del fiore ha potuto dimostrare che arte e scienza della costruzione possono offrire soluzioni che ancora oggi fanno alzare gli occhi al cielo, vuol dire che il cammino di genialità intrapreso da questi signori era quello giusto. Tanto più la validità di questi atteggiamenti regge nel tempo, tanto più si solidifica e diventa grande. Se uno scultore come Michelangelo che mai si è definito pittore, ha potuto dipingere il giudizio universale e la volta della Sistina, vuol dire che l’eclettismo artistico ha potuto trovare in questo tempo la sua ragione di esistere in virtù dello straordinario connubio tra arte e conoscenza, tra sentire e fare, conoscendo l’oggetto del sentire. La linea di questa pubblicazione ripercorre una necessità che è quella di non tenere disgiunte arte e conoscenza della cosa. Non si tratta di tornare al passato perché quello che è stato consegnato alla storia vive comunque all’interno di ogni singolo individuo che traccia sentieri nuovi, si tratta semmai di non perdere di vista quel progetto di integrazione tra le esperienze conoscitive dell’uomo che possono fare la differenza nei confronti del pressappochismo del quale la nostra epoca è intrisa. Vivere questo tempo senza la consapevolezza dei processi che hanno accompagnato il progresso nel quale ci troviamo, è rimanere fuori dal gioco dei “perché”. Abbiamo a che fare con un mondo decisamente più complesso di quello che accoglieva le gesta di Lorenzo il Magnifico. Pascal diceva: “Se perdiamo di vista la scienza rischiamo di diventare stranieri del nostro tempo”. E’ in qualche modo quello che accade quando accendiamo il televisore e non sappiamo il perché quella scatola di plastica e vetro ci consente di vedere le immagini del reale. Un artista che oggi voglia partecipare al suo tempo non può dar vita a riedizioni antiquariali dell’arte, ma porsi il problema della funzione dell’arte nel mondo in cui vive. Queste complessità sono il prodotto di un allargamento dei linguaggi e della nascita di nuove discipline ontologiche che hanno dato la misura di ogni divenire, sia esso riferito al funzionamento del corpo umano che a quello dei fenomeni naturali sconosciuti all’uomo. Le teorie fantastiche nel lasciare il posto alla scienza si sono spogliate di mistero, eppure quanto ancora ne rimane.
La visioneSiamo così abituati a vedere, da non renderci conto che questa nostra facoltà dipende da complesse ed in parte misteriose operazioni. La visione è un processo attivo, per vedere è necessario guardare. La formazione dell’immagine retinica ottenuta per mezzo della luce proveniente dal mondo esterno è un processo fisico che avviene nell’occhio vivo quanto in quello morto, ed ovviamente, anche all’interno di un oggetto inanimato come la macchina fotografica. Un semplice elenco delle parti anatomiche che compongono il nostro occhio non spiegherebbe assolutamente nulla. Il suo compito non è quello di fare fotografie ma quello di informare il cervello mediante un codice di segnali nervosi. Il mondo che osserviamo è decisamente più grande di quello che 2,5mm di pupilla può contenere. Contrariamente a quello che verrebbe normale credere, il processo attivo della visione risiede nel cervello, seppure questa sensazione ci appaia esterna all’apparato cerebrale. Sulla retina del nostro occhio si proiettano immagini rimpicciolite, deformate e capovolte; il miracolo è che riusciamo a vederle nelle loro dimensioni reali. L’occhio non ha abbastanza spazio e neppure gli strumenti che sarebbero necessari per compiere operazioni così macchinose se dovesse spedire al cervello un numero così elevato di fotogrammi in frazioni di secondo. Già ai tempi di Platone furono formulate diverse teorie sul problema della visione ed alcuni termini che attualmente usiamo ci giungono direttamente dai filosofi greci. I mezzi dei quali disponevano gli scienziati di allora non sono certo quelle altamente perfezionati dei quali disponiamo oggi, comunque a loro va il merito di aver impostato il problema. Benché Platone pensasse che la visione degli oggetti dipendesse dall’emissione di particelle presenti nell’occhio, possiamo affermare che il suo contributo fu grande, come quello di Euclide al quale si deve far risalire il primo trattato sulla visone. Da allora fino al 1600 sono trascorsi secoli senza significativi progressi sul come e sul perché vediamo. Sebbene Leonardo avesse intuito che il processo della visione fosse legato al principio della camera oscura, fu Keplero il primo a capire che la luce proveniente dagli oggetti esterni provoca sulla retina un’immagine invertita degli stessi oggetti.

Anatomia dell’occhio


L’apparato visivo è una perfetta organizzazione anatomica, dove ogni elemento si comporta in modo funzionale al compito che deve assolvere. La forma dell’occhio si avvicina a quella della sfera, il suo diametro è di circa 2,7 cm. Il bulbo oculare, non essendo costituito da materiali rigidi, mantiene la sua forma grazie al fluido presente al suo interno. Gran parte del rivestimento esterno dell’occhio è costituito da una membrana fibrosa chiamata sclera che nella parte anteriore assume le sembianze di una finestra trasparente chiamata cornea. La caratteristica della cornea è quella di essere più convessa della sclera. Questa parte anatomica, essendo priva di vasi sanguigni, può essere considerata indipendente dell’occhio. La massima deviazione dei segnali luminosi che formano l’immagine avviene sulla superficie corneale. Il compito fondamentale di questa membrana trasparente è quello di proteggere l’occhio dagli agenti esterni. Volendo fare un paragone facile, possiamo dire che la cornea somiglia al parabrezza della nostra auto che ci protegge da tutto quello che è esterno all’abitacolo. Sotto la cornea è situata l’iride che con la sua vasta gamma di pigmenti dona all’occhio quella intensa e particolare colorazione a noi tutti nota. La colorazione dell’iride che può variare nella gamma dei colori a noi conosciuti, non ha nessuna importanza ai fini della visione, serve soltanto a schermare l’occhio dai raggi provenienti dall’esterno. La sua funzione è quella di consentire alla luce di passare unicamente attraverso la pupilla, la quale altro non è che il foro dell’iride. Occhi di colore scuro ed intenso hanno una maggiore protezione di occhi chiari. La dilatazione della pupilla che può variare dai 2 agli 8 millimetri, riveste particolare importanza ai fini di una corretta visione, in quanto il suo scopo è quello di far passare lo stesso quantitativo di segnali luminosi. L’immagine proveniente dalla pupilla finisce sulla lente o cristallino che, grazie al suo comportamento concavo convesso, stimolato dal muscolo ciliare, ha il compito di accomodare la vista; al cristallino è dato il compito della messa a fuoco delle immagini. Quando la lente si accomoda sugli oggetti vicini, la tensione dei legamenti sospensori si allenta permettendo alla lente di assumere una forma convessa. La stessa lente si appiattisce quando mettiamo a fuoco oggetti lontani. Caratteristica della lente è quella di essere costituita da cellule che non si rinnovano e quindi con il passare del tempo la funzione del cristallino si irrigidisce dando luogo al difetto di presbidia, tipico nelle persone adulte. Mentre la lente è immediatamente dietro la pupilla ed in contatto con l’iride, maggiore distanza intercorre tra il cristallino e la retina. Questa distanza è colmata da una sostanza gelatinosa detta umor vitreo. I segnali luminosi accomodati dal cristallino, finiscono sulla retina che riveste la parte concava dell’occhio, la quale, tramite il nervo ottico, è in diretto contatto con il cervello. La sottile membrana che costituisce la retina, ricca di vasi sanguigni, è formata da cellule nervose. In prossimità del nervo ottico si trova la cavità foveale che è una piccola depressione avente lo scopo di raccogliere la prevalenza delle immagini che sotto forma di impulso elettrochimico vengono trasmesse al cervello.Fotorecettori della retina.La retina è formata da due gruppi di cellule, detti fotorecettori, i quali prendono il nome di coni e bastoncelli. I coni, prevalentemente raccolti in prossimità della fovea sono quelli che ci consentono una visione fotopica (a colori), mentre i bastoncelli ci permettono una visione chiaroscurale. Al contrario dei bastoncelli che sono attivi anche con pochissima luce, i coni necessitano di una buona stimolazione luminosa. Tutti i tipi di fotorecettori (coni e bastoncelli) in presenza di scarsa illuminazione si comportano come bastoncelli. La scoperta della funzione della retina è relativamente recente, se consideriamo il tempo intercorso tra le prime teorie sulla visione e la nascita dell’ottica moderna. Per scoprire il minuto popolo dei recettori si è dovuta attendere la scoperta del microscopio. Soltanto nel 1835 Trevianus ne formulò una descrizione simile a quella riconosciuta dalla scienza attuale. Essendo coni e bastoncelli cellule fotosensibili collegate alle fibre del nervo ottico, possono essere considerate in qualche modo una espansione del cervello. Quella particolare condizione di momentanea cecità che proviamo quando passiamo da una situazione di forte luminosità ad una che presenti una scarsa illuminazione, dipende dall’improvviso e mutato ruolo di coni e bastoncelli che si devono adattare velocemente ad una diversa condizione. Normalmente il passaggio dalla visione fotopica a quella scotopica avviene gradualmente e quindi le cellule fotosensibili hanno tutto il tempo per adattarsi alle condizioni di luminosità presenti al momento. In casi come questo, il passaggio è repentino e brusco, i coni che un istante prima erano preposti alla visione cromatica, assumono il ruolo di fotorecettori sensibili a pochi quanti di luce.Visione cromatica.L’aspetto che differenzia questi due gruppi di cellule della retina è di fondamentale importanza per quello che concerne la visione cromatica, la quale, dipende esclusivamente dai coni della retina. Va detto innanzi tutto che a vedere i colori non sono tutte le specie di animali. La visione cromatica dipende dalla conformazione dell’apparato visivo che si differenzia di specie in specie. La visione cromatica necessita di due condizioni fondamentali: che ci sia una fonte luminosa e che i coni presenti nella retina siano in grado di ricevere le stimolazioni della luce. Una grande importanza per l’acume visivo e la percezione dei colori è data dalla fovea centralis. Questa piccola depressione che potremmo definire una specie di imbuto dove finiscono le immagini cromatiche, ha l’importante compito di consentirci la visione a colori del mondo. Quando guardiamo un oggetto per vederlo meglio ruotiamo l’occhio, permettendo all’immagine di cadere dentro questa cavità. La particolare attività appena descritta si chiama riflesso di fissazione. Tutti i punti su cui fissiamo lo sguardo formano le immagini retiniche dentro la fovea che è l’unica parte dell’occhio dove sono presenti solo cellule fotorecettive coniche. La spiegazione del numero ridotto di questo tipo di cellule risiede nel fatto che queste sono direttamente collegate alle fibre nervose, in modo da poter funzionare come singole interconnessioni con il cervello. Non può essere così per tutti i coni e bastoncelli, in quanto il loro numero è di gran lunga superiore a quello delle fibre del nervo ottico. Ci sono circa 1.000.000 di fibre ottiche a fronte di 6.000.000 di coni e 100.000.000 di bastoncelli, ma tutto il lavoro più delicato è svolto da poche migliaia di coni presenti nella fovea centralis. Il campo visivo dell’occhio è la regione dello spazio esterno, tuttavia il campo visivo dell’occhio in movimento è più grande. Quando per vedere ruotiamo l’occhio, di fatto allarghiamo il campo visivo. Cellule coniche.Le cellule coniche a loro volta si suddividono in tre gruppi (immaginiamoci tre gruppi di raccattapalle in un campo di calcio), ognuno dei quali è sensibile a determinate lunghezze d’onda della luce. Una regione è sensibile alle lunghezze d’onda dei rossi e degli aranci, una sensibile alle lunghezze d’onda centrali dei verdi e dei gialli, e l’altra a quella dei blu e dei violetti. Ricevuto lo stimolo dall’oggetto che in quanto visibile è luminoso, tutti e tre i tipi di recettori catturano il segnale e lo inviano al cervello secondo le stimolazioni che hanno ricevuto. L’apparato cerebrale riceve dalla retina tre segnali distinti, i quali, vengono successivamente sommati nello stimolo risultante dell’oggetto osservato. I colori presenti in natura non sono quelli spettrali (arcobaleno) ma il risultato di una più complessa mescolanza di onde elettromagnetiche. Un’arancia che non esiteremmo a riconoscere nella sua colorazione tradizionale, riflette radiazioni tra i 510 ed i 680 nanometri. Questo vuol dire che lo stimolo ricevuto dall’occhio attiva i coni che possono rispondere a queste lunghezze d’onda. Al cervello arriva sempre una tripletta di segnali elettrochimici; se un gruppo non risponde a determinate lunghezze d’onda, manderà al cervello uno stimolo equivalente a zero. Ricorriamo alla televisione a colori per provare sperimentalmente in modo semplice la sostanza di queste affermazioni. Un esperimento che possiamo fare tutti e che non costa assolutamente nulla, consiste nello spruzzare una gocciolina d’acqua sullo schermo acceso della nostra televisione. Quello che la goccia evidenzierà, nel farci da lente di ingrandimento, saranno tre dischetti accorpati e ripetuti all’infinito, di colore rosso, verde e blu; colori primari generatori che, neanche a dirlo, corrispondono alle regioni di sensibilità cromatica dei coni della retina. Tutti i colori che vediamo nella televisione quando stiamo guardando un programma, da primari si generano in secondari, terziari ecc. Queste tre piccole luci opportunamente accese producono un colore invece che un altro. Se il dischetto blu è spento mentre verde e rosso sono accesi alla stessa intensità luminosa, come sintesi additiva otterremo il giallo che è appunto la somma del verde e del rosso per luci proiettate. E’ dalla costante e continua variazione di luminosità di questi dischetti presenti sullo schermo che si genera la sensazione di colore, la quale ci farà sembrare come naturali i colori che stiamo vedendo. D’altra parte è risaputo che un numero minimo di primari (tre) può dare origine ad una gamma vastissima di colorazioni possibili.Visone acromatica.Va comunque ricordato che se il serpente a sonagli è in grado di vedere anche l’infrarosso, la quasi totalità dei mammiferi non ha una visione cromatica. Insieme all’uomo vedono i colori gli insetti, i pesci e gli uccelli: l’acume visivo del falco è 7 volte il nostro. Avere una visione acromatica non significa dover fare i conti con una vista limitata. Ogni animale ha una visione funzionale alle esigenze di sopravvivenza. Per un predatore è più importante avere una visione periferica sensibile al movimento, ottimale anche in condizioni di scarsa illuminazione. Se noi, grazie alla visione periferica data dai bastoncelli, possiamo percepire il movimento in prossimità dell’orecchio, un felino che sia tigre o gatto, avverte il movimento fin dietro la testa. In luogo di una mancata visione cromatica, la presenza di una vasta scala di grigi, offre una più che lusinghiera visione a qualunque animale.

Caos e cosmo


Il movimento caotico della matita su un foglio è energia allo stato puro. La centralità nella quale si esplica il movimento è il punto di maggior forza che accoglie le tensioni e le intersezioni della volontà circolatoria, la quale, progressivamente diventa periferica. La mobilità è condizione primaria del mutamento. In seguito allo spostamento verso l’esterno la linea tende a cedere spazio, ne deriva una apertura alla circolarità, dove la densità energetica si attenua per lasciare posto alla dimensione del lineare medio. Dalla pura energia luce del caos si passa progressivamente all’ordine del moto controllato. Nel bambino la coscienza della geometria è assente, quindi le forme circolari non rappresentano un aspetto geometrico ma un luogo contenitore generato dal movimento. Dallo scarabocchio alla circolarità non si ha una perdita effettiva di energia; quello di cui si può parlare è semmai una sorta di travaso. L’energia vitale distribuita sul foglio allo stato puro tende a trasferirsi nella dimensione razionale della forma successivamente riempita di contenuti. Per il bambino la circolarità non è mai una forma fine a se stessa ma la definizione di uno spazio da colmare. Il rapporto tra centro e periferia a questo punto diventa rapporto tra contenuto e la delimitazione di esso. Il passaggio dal lineare medio del contenitore (effetto di superficie) a quello del disegno colorato (lineare passivo) implica il rapporto tra misura del contenitore e peso del contenuto. E’ stato detto che il lineare medio è in primo luogo misura, mentre il lineare passivo, in quanto colore è in primo luogo peso ed in secondo luogo qualità cromatica. L’ordine acquisito implica la razionalizzazione dell’evento, che si tratti di fiore, albero o foglia. Delimitato uno spazio che è da subito costruzione di un’area personale all’interno dello spazio dato, la comparsa delle verticali e delle orizzontali è già sintesi astratta. Il successivo inserimento della linea obliqua, completa nella sua essenzialità il sistema di rappresentazione. Sarà a questo punto sufficiente affacciarsi dalla finestra per rendersi conto della sovrabbondanza di verticali orizzontali e linee oblique che tracciano la mappa della città. Il bambino quando disegna sul foglio la casa, ne traccia i contorni e ne coglie l’essenza disegnando non quello che vede, ma quello che conosce. Potrà sembrare strano ma noi vediamo unicamente ciò che conosciamo.


Effetti ottici


Per il nostro occhio 12 fotogrammi visti in un secondo sono già un film. Questa banale considerazione ci serve per farci entrare dentro l’interessante capitolo delle illusioni ottiche. Sappiamo che un pellicola cinematografica altro non è che una lunga sequenza di immagini fotografiche. La prima illusione ottica che ci vede protagonisti passivi è proprio la visione di un film. Una volta compreso il funzionamento del rapporto occhio - cervello, un qualsiasi gioco di prestigio può riuscire benissimo. Il bravo illusionista ha fondamentalmente come arma la velocità di esecuzione e la capacità di far prendere punto fisso all’occhio in una zona non interessata dall’azione. Quello che a noi sembra impossibile in realtà succede proprio sotto i nostri occhi che, in questo caso, mostrano il limite che consente all’azione di svilupparsi senza che venga registrata e quindi decodificata. Le azioni che il cervello elabora si svolgono a velocità ordinaria. Il sistema cerebrale, per quanto veloce, ha bisogno di tempo per convertire in immagine gli stimoli provenienti dalla retina. Diciamo che è abituato alle necessità che la nostra esistenza quotidiana impone. Se è sufficiente rallentare l’azione dell’illusionista per comprendere il trucco, vuol dire che in questi casi è l’elemento velocità a dettare le regole illusionistiche.

Altri tipi di illusioni ottiche hanno origine da ragioni diverse. Viene tirata in ballo in primo luogo la bistabilità della vista che consiste nella trasmissione di un doppio di dati al cervello aventi pari caratteristiche: soggette quindi a due interpretazioni ugualmente valide. Questo esempio chiarisce meglio di qualsiasi altro ragionamento quello che succede quando vengono inviati al cervello stimoli in grado di produrre soluzioni differenti all’immagine osservata. L’invito che vi viene fatto è quello di contare i cubi presenti nel disegno. Una volta contati volgete lo sguardo da qualche altra parte e poi riprovate a contarli di nuovo. Sono sei o sono sette? Se la conta dà ancora lo stesso numero, riprovate e vedrete che prima o poi il numero dei cubi individuati cambierà. L’esempio presentato è quello di un’immagine ambivalente. Il numero dei cubi dipende da dove l’occhio prende punto fisso. Se l’occhio individua prima la base della composizione, i cubi saranno sei, se invece prende punto fisso dall’altezza saranno sette.

Molti conoscono di sicuro l’effetto ottico della giovane e della vecchia presentato nella pagina. Il processo illusorio è il medesimo. Al cervello vengono inviati stimoli soggetti a due diverse interpretazioni, il sistema cerebrale è in grado di produrle entrambe e di fornirle in modo alternato. Se l’occhio prende in considerazione la totalità del pattern visuale, l’immagine che compare è quella della vecchia, se invece la visione è più dettagliata, quella raffigurata nel disegno sarà una giovane vista di profilo. In realtà è possibile ingannare completamente il cervello se ad esempio gli stimoli luminosi di un quadro corrispondono a quelli della realtà oggettiva. Ci sono opere pittoriche non distinguibili dalla fotografia che hanno la caratteristica di disperdere la stessa quantità di luce della foto. La decodificazione cerebrale giunge alla conclusione più semplice ed immediata. Visto che la fotografia trova maggiore spazio nella quotidianità, ci sarà più semplice credere che non si tratti di un quadro. È piuttosto frequente per il cervello giungere a conclusioni sommarie ed affrettate, d’altra parte i tempi di risposta non possono essere che brevi.L’individuazione dell’oggetto è data dagli stimoli che l’occhio invia al cervello e dall’archivio conoscitivo del sistema cerebrale. Un cerchio visto in prospettiva viene letto come una forma ovale, a meno che non si aggiungano all’immagine data altri elementi che possano far risalire ad un oggetto conosciuto di forma circolare. A questo punto, gli stimoli vanno a comporre non l’immagine che il cervello vede, ma quella che conosce.La stessa prospettiva è una realtà illusoria data da una profondità costruita ad arte per ingannare l’occhio. Per esperienza visiva sappiamo che gli oggetti lontani ci appaiono piccoli. Più la distanza aumenta più le dimensioni si riducono. Siamo quindi in presenza di una proporzione matematica che può portare ad un calcolo esatto della distanza illusoria. Tanto più la tela sulla quale è disegnata la prospettiva ha una spessa cornice, tanto più l’effetto di profondità ci apparirà solido. Non è un caso quindi che le opere di natura prospettica si servano di cornici per aumentare la sensazione di profondità che l’artista vuole ottenere. La cornice del quadro altro non è che la finestra attraverso la quale guardare il mondo. Le ragioni di una maggiore efficacia illusoria del paesaggio composto dentro una cornice, sono date sia dalla prospettiva in sé, sia dall’immagine finestra che il cervello riconosce come luogo dal quale vedere la realtà circostante. Se al cervello diciamo che stiamo guardando da una finestra e se questa, può contenere una realtà illusoria, il gioco è pressoché fatto, avremo la sensazione di una realtà oggettiva anche se costruita sulla superficie piatta della bidimensionalità di un quadro. La prospettiva. Ad un certo punto della storia, e più precisamente nel Rinascimento, si è avuta l’esigenza di far entrare dentro un quadro quanti più elementi era possibile farci entrare. E’ chiaro che non si è trattato solo di un espediente pratico ma anche di una esigenza simbolica, considerato che il Rinascimento, servendosi della filosofia e della matematica, aveva già nel suo programma il superamento della bidimensionalità medioevale. L’arte non ha evoluzione ed appunto per questo ha potuto produrre in ogni epoca operazioni di ricerca e renderle funzionale ai propri bisogni, aderendo di fatto al proprio tempo. Se il Rinascimento, attraverso la prospettiva ha imposto il proprio linguaggio, è perché il passaggio dal simbolo alla figurazione ha trovato in questo strumento un micidiale alleato. L’arte del mosaico che nel Medioevo attraverso la vitalità delle tessere colorate aveva congelato nel misticismo l’immagine religiosa, viene soppiantata da un’altra concezione contemplativa regolata dal principio che tanto più l’immagine è bella tanto più si avvicina a Dio.Sappiamo che la prospettiva privilegia il punto di vista dal quale osservare lo svolgersi dell’evento visivo. L’uomo può costituirsi punto di vista in quanto persona fisica, Dio no. Si spiega anche in questo modo la fortuna della prospettiva nel Rinascimento. Come avrebbe potuto il Medioevo fondato su un programma teocentrico dar vita ad una visione prospettica dell’esistenza? La finestra aperta è in funzione dell’uomo che guarda e che costituendosi punto di vista diventa padrone dello spazio che si apre ai suoi occhi. Qualsiasi universalità per essere tale, deve passare attraverso la razionale accettazione linguistica del genere alla quale si riferisce. Il fondamento matematico dal quale la prospettiva prende origine è oggettivo e quindi regola. La caduta dell’aspetto simbolico dell’arte a favore dell’allegoria, ha prodotto durante il Rinascimento un abuso superficiale dei contenuti. Il simbolo è una funzione molto profonda della mente, l’allegoria un sistema di rappresentazione non circoscritto alla cerchia ma esteso a tutti, quindi di livello comunicativo. Qualunque intenzione che si serva del flusso comunicativo per arrivare a destinazione, deve fare i conti con la perdita di efficacia della concezione originaria. Il simbolo che ha da sempre rappresentato l’essenza del pensiero, confluendo nell’allegoria vede compromessa la sua efficacia. Se il simbolo parla al genere, la raffigurazione parla all’individuo. La differenza linguistica è notevole. L’allegoria della rappresentazione ha come vantaggio quello di essere compresa da tutti, ma dovendosi tenere sul leggero, ha forse lo svantaggio di non parlare il linguaggio del profondo a nessuno.


Equilibrio


Equilibrio è quando due forze di segno opposto si bilanciano nel cedere energia l’una all’altra. Tra peso gravitazionale del nero e forza di lievitazione del bianco il punto di equilibrio è dato dal grigio. Per l’uomo, la condizione di equilibrio non è solo fisica ma anche mentale. La nostra esistenza prevede concetti polari che hanno un loro opposto, in questa polarità è sempre compreso il punto di equilibrio. L’equilibrio è nel paradigma del nostro corpo dove il funzionamento di un sistema dipende dal rapporto tra le parti. La simmetria, è solo un aspetto delle forze che agiscono sull’immagine quadro, le più interessanti di fatto si sottraggono ad una prima e semplice lettura. Cos’è il concetto di “classico” se non equilibrio tra vitalità e bellezza? Tutti i sistemi che prevedono polarità hanno nell’equilibrio un fragile e precario contatto. Così come nel “classico” la vitalità può cedere energia alla bellezza e viceversa, è difficile che la barca solcando il fiume possa tenersi perfettamente equidistante dalle sponde. E’ la precarietà la caratteristica delle forme di equilibrio al massimo grado. Più ci si allontana dalle condizioni di stabilità, più le forze che agiscono sull’equilibrio si fanno vitali. Possiamo indagare lo spazio attraverso le linee di forza che agiscono sulla struttura ed accorgerci che i campi visivi sono governati da una loro propria energia. Le linee di forza del quadrato, ad esempio, agiscono sulle diagonali. Il punto di maggiore equilibrio è dato dal punto di intersezione, che di fatto è il luogo di maggiore attrazione e repulsione del quadrato. Quando collochiamo un oggetto al centro del tavolo, agiamo sulle linee di forza del piano.

Alto e basso, sinistra e destra, hanno una loro energia ed una dimensione coloristica. Sinistra-blu. Destra - arancio. Sopra -bianco. Sotto - nero.L’immagine di un pattern visuale (immagine quadro) ha la sua anatomia dalla quale dipende l’efficacia del rapporto tra pattern ed agenti esterni. Dovendo inserire all’interno del quadro due cerchi che risultino di uguale misura e di pari bilanciamento, sarà necessario che il cerchio di sinistra sia leggermente più grande di quello di destra. Questo in virtù del fatto che la visione umana, per conformazione stereogrammatica, legge da sinistra verso destra. Per effetto della permanenza retinica, l’immagine di destra appare più grande. Se invece i cerchi da bilanciare fossero uno azzurro e l’altro arancio, l’equilibrio visuale è dato dalla collocazione del cerchio azzurro nella regione dell’arancio, e da quello arancio nella regione dell’azzurro. Per ottenere un effettivo bilanciamento all’interno di una immagine quadro, colori e forme devono trovare una loro collocazione in relazione alle loro specifiche caratteristiche di energie e peso. Nessuna grande opera d’arte in realtà è stata costruita con il bilancino in mano, come non è detto che l’equilibrio sia la condizione da voler raggiungere. E’ certo comunque che i grandi maestri del passato conoscevano le leggi compositive. Conoscere per trasgredire è la regola che forse può andar bene anche oggi.Nessuno potrà mai fornire teorie esatte ad uso e consumo della pittura; aggiungo che sarebbe inutile e stupido farlo. Significherebbe negare la stessa essenza dell’arte. La conoscenza ha una sua utilità quando è funzionale ad un bisogno. Le leggi che regolano l’equilibrio visivo hanno dalla loro il peso gelido di misure e proporzioni; provare ad umanizzarle non è un compito per niente facile. Possono servire nei momenti di debolezza creativa, possono venirci in soccorso quando lo scopo di quello che stiamo facendo ha valenza razionale.


Fascino e bellezza


Lo stesso paragone può essere fatto tra fascino e bellezza. Anche in questo caso la confusione che si genera nel giudizio di ciò che è fascinoso e bello non è da poco. Proviamo a chiarire meglio questo argomento che coinvolge noi, le persone che abbiamo accanto e quelle che, per un verso o per un altro, fanno parte della nostra vita. Come per la decorazione, la pura bellezza è fatta di numeri, di canoni, misure e proporzioni. Un viso bello ha come caratteristica un esatto rapporto tra le parti. Il suo progetto coincide con la costruzione ideale. Il terreno dove la bellezza raccoglie il consenso è l’oggettività. E’ oggettiva perché dipendente da un sistema logico. Anche quando diciamo che quella che abbiamo di fronte è una bellezza che non ci piace, di fatto facciamo una affermazione che avvalora questa tesi. Siamo pronti cioè a riconoscere che si tratta della bellezza, però noi stiamo cercando altro.Come ordine controllato, l’immagine bella, trova il maggiore riscontro nell’immediatezza. Il cervello tende ad assimilare rapidamente i canoni ma ha il benedetto o maledetto vizio di andare oltre. La pura bellezza come valore estetico tende a perdere forza di impatto con il trascorrere del tempo. Dopo qualche giorno la sola bellezza potrebbe non bastare a farci piacere un uomo o una donna. Il fascino corrisponde alla vitalità, all’espressione. Fondamentalmente il fascino è enigmatico e tende a concedersi poco alla volta. Il puro fascino stimola un linguaggio cerebrale complesso che mette fuori gioco l’individuo che lo subisce. Un volto fascinoso non ha caratteristiche di proporzione, ha quelle di unicità, non rimanda al genere ma alla persona. Quando diciamo che è bello ciò che piace, ci riferiamo al fascino, alla sua caratteristica individuale di unicità. Il fascino ovviamente può dipendere da più cose presenti nell’individuo. Il riferimento è spesso all’intelligenza, al carattere, al potere, all’uso della gestualità e della parola. Ciò che è enigmatico tende a sottrarsi alla digeribilità cerebrale, è l’oggetto del desiderio da continuare a scoprire e conoscere. Nel corso di queste pagine abbiamo imparato a convivere con l’idea che i contrasti polari trovano nell’equilibrio il massimo grado di convivenza dove le rispettive energie, incontrandosi, producono una dimensione altra. Bellezza e fascino presi come estremi della piacevolezza, possono non convivere all’interno dello stesso corpo ed essere caratteristica predominante di un singolo individuo. E’ possibile che una caratteristica prevalga sull’altra o che i due aspetti siano presenti in uguale misura all’interno della stessa persona. Se l’individuo fosse un’opera d’arte diremmo che questa forma di equilibrio corrisponde al “classico”. Come il linguaggio si compone di comunicazione ed espressione, l’individuo è fatto di fascino e bellezza. La nostra esperienza di vita ci dice che la forma di equilibrio in cui questa condizione è presente al massimo grado all’interno della stessa persona è piuttosto rara, come è raro d’altronde trovarsi in presenza di un linguaggio che sia fortemente comunicativo ed espressivo nello stesso tempo.Immagine e somiglianza. Tra i percorsi di conoscenza, merita sicuramente attenzione quello che conduce a noi stessi. Siccome l’immagine dalla quale non ci sottraiamo mai, sfugge alla nostra consapevolezza, dobbiamo ammettere che fondamentalmente ci conosciamo attraverso gli altri. Sebbene il tempo che passiamo con noi stessi non è poco, la consapevolezza di quello che siamo ci proviene dal mondo esterno. Quello che di certo possiamo dire è che somigliamo al nostro volto e soprattutto ai nostri occhi. L’affermazione fatta è meno banale di quanto può sembrare perché tira in ballo aspetti del nostro essere che in un certo qual modo sfuggono alla nostra consapevolezza. La parte anatomica più rilevante del viso è costituita dagli occhi che, prima ancora di essere lo specchio dell’anima, sono l’unica parte geometricamente definita del nostro corpo. A questo proposito tornano utili le nozioni acquisite sulla legge di semplicità che indicano nella forma circolare la figura geometricamente meglio recepita dall’occhio. Se, come abbiamo detto, l’occhio tende a vedere se stesso, il ragionamento va esteso a cosa vede di se stesso. Innanzi tutto la forma e successivamente il colore. Possiamo esser certi di riconoscere in una persona lo sguardo senza necessariamente ricordarci il colore degli occhi. Più che la forma è il colore dei nostri occhi che influenza le scelte che facciamo, almeno quelle di natura cromatica. La distinzione di primo livello tra chiarezza ed oscurità evidenzia che persone di carnagione chiara ed occhi chiari prediligono una scala cromatica più vasta. In particolar modo il loro gradimento coloristico si orienta all’interno del settore centrale della curva di luminosità. Questo tipo di tendenza è piuttosto evidente nell’abbigliamento. A differenza di persone di carnagione scura ed occhi scuri che prediligono una gamma più ristretta e caratterialmente definita, le persone bionde fanno uso dei gialli, degli aranci e di tutti i toni schiariti del verde e dell’azzurro. Studi di una certa attendibilità hanno provato che le persone con occhi chiari, in virtù del condizionamento coloristico dell’iride hanno maggiori possibilità di variare con più frequenza i colori del loro abbigliamento. La natura umana vive di compensazioni, la tendenza è quella all’equilibrio anche quando si tratta del rapporto interno esterno, sempre vivo in una persona. In qualche modo ci si presenta quotidianamente davanti ad un giudice che chiamiamo mondo. L’accettazione non passa mai per una sola strada, e questo va a vantaggio delle infinite sfaccettature di valore che come persone abbiamo. Possiamo essere belli, sensibili, intelligenti, determinati...possiamo essere insomma tante cose. Ognuna di queste cose è il passaporto che ci consente di viaggiare dentro gli occhi e le menti delle persone che incontriamo quotidianamente. Mi evito la banalità di dire che meglio sarebbe essere tutte queste cose insieme. Anche se è possibile, sappiamo che la vita terrena solitamente è più avare dei nostri stessi desideri. Quando si dice che è possibile che sia più stupida una persona esteticamente bella di una meno piacente, ci troviamo di fronte ad una affermazione da analizzare. Questo passaporto per viaggiare dentro gli occhi e le menti della gente può essere generato anche in assenza di una volontà individuale. La persona particolarmente bella deve fondamentalmente la sua esteticità a madre natura, e quindi il suo è un passaporto ricevuto in omaggio. Cosa diversa dal lasciapassare che le persone di media o bassa gradevolezza fisica devono costruirsi giorno per giorno attraverso l’impegno, lo studio ed il lavoro. Il mondo non analizza più di tanto, recepisce e basta. Quello che conta in definitiva è costruirsi la sfera del nostro personale successo, fatto magari di piccole cose. Importante è sentirsi dentro e non ai margini del mondo. Dire che ci conosciamo attraverso gli altri è recepire sotto forma di rimando quello che noi comunichiamo al mondo. Spesso questo segnale ci ritorna come giudizio. E’ questo giudizio che forma la coscienza di chi noi effettivamente siamo nei confronti della gente. Quando si dice che le persone molto belle non sono necessariamente felici è vero. Questo dipende dal rapporto tra quello che si è veramente e quello che il mondo recepisce della persona. Una soverchiante esteticità è di fatto un limite perché impedisce la costruzione di un valore altro che non sia quello già accettato. Normalmente questo genere di passaporto è un buon viatico per qualsiasi futuro, può comunque succedere che l’immagine comunicata non corrisponda a quella effettiva. La conseguente discordanza di fase può provocare, come è ovvio, inevitabili squilibri. Lo specchio è sempre troppo vicino per poterci dire chi effettivamente siamo.
Fisica del colore


Incominciare a trattare un argomento che riguarda il colore dicendo che il colore non esiste è qualcosa di sconcertante. Ci dovremmo accontentare di una definizione che indica come colore quella particolare sensazione prodotta dalle onde elettromagnetiche della luce che ad una determinata lunghezza d’onda si manifestano sotto forma di colore. Secondo tutti i racconti biblici la luce precedette l’origine di ogni cosa; visto che la fisica concorda con questa tesi, non resta che spiegare il perché di questo evento. Potrà sembrare per certi versi un percorso ostico quello che ci avviamo a percorrere, le nuove conoscenze in principio disarmano ma poi appassionano. Le ragioni del perché ci piace vestire di rosso invece che di blu hanno come origine questo percorso da leggere come funzionale alle tante risposte che nel proseguo potremo darci. Dopo tutto il compito di queste pagine è quello di dare in modo semplice più risposte possibili a domande che non possono eludere questioni fondate su presupposti di scienza. Per quanto si possa girare attorno all’argomento colore in termini di incidenza psicofisica, di applicazione funzionale alla vita di tutti i giorni, bisogna fare i conti con la natura della luce, unica depositaria di questa meraviglia che affascina le nostre menti. Proviamo ad incominciare dicendo che i raggi solari sono un tipo di onde elettromagnetiche simili a quelle trasmesse da una qualunque stazione radio. Può sembrare strano che la luce, non essendo percepibile attraverso l’udito, possa appartenere a questa famiglia. Cerchiamo di capire cosa si nasconde dietro questo ragionamento apparentemente infondato. La nostra esistenza è quotidianamente bombardata da onde elettromagnetiche, le quali si differenziano solo nell’avere lunghezze d’onda e frequenze diverse. Il visibile è una parte molto piccola della gamma delle onde elettromagnetiche. Tra i 380 nanometri del violetto fino ai 760 del rosso profondo, sono comprese le lunghezze d’onda che generano il colore. Dalle innocue onde radio ai distruttivi raggi gamma, il corpo umano offre risposte comportamentali alle sollecitazioni elettromagnetiche. Gli infrarossi ed i raggi ultravioletti rappresentano il limite entro il quale il visibile si manifesta ai nostri occhi. Per abitudine quando si vuole spiegare il fenomeno della propagazione luminosa si ricorre all’esempio del suono. A differenza del suono che si propaga nell’aria alla velocità di 300 metri al secondo, la luce viaggia anche nel vuoto alla ragguardevole velocità di 300.000 chilometri al secondo. Quello con il suono è un paragone che può farci fare il passo successivo, perché il problema della propagazione della luce nel vuoto è stato da sempre un problema difficile da risolvere. Sappiamo, per analogia con il suono, che le onde si propagano in un mezzo materiale che può essere l’aria, l’acqua, un corpo solido. La luce, percorrendo spazi interstellari ci giunge dal Sole che non è propriamente dietro l’angolo. La domanda è stata da sempre come può la luce viaggiare all’interno di un mezzo immateriale come il vuoto.Quello della propagazione della luce è un argomento che ha obbligato l’uomo sin dai tempi più antichi, con Aristotele, ad inventare una sostanza misteriosa chiamata etere, la quale avrebbe dovuto svolgere la stessa funzione che ha l’aria nei confronti del suono. L’etere, dai tempi di Aristotele fino al secolo scorso, più che un ipotetico mezzo di conduzione, ha rappresentato l’incapacità umana a comprendere come mai la luce potesse viaggiare indisturbata ad elevatissima velocità nel vuoto. La scienza che pure vive di certezze, si è dovuta accontentare, e lo ha fatto per moltissimi anni, di supposizioni non verificabili, riguardo l’esistenza di questa misteriosa sostanza di conduzione. Lo stesso Galileo che si era posto il problema della propagazione luminosa non poteva certo risolverlo con i mezzi che aveva a disposizione. Suo comunque è il merito di aver impostato il problema ripreso 250 anni dopo da Fizeau, fino a quando Michelson provò sperimentalmente che la luce viaggia indisturbata nel vuoto a 300.000 chilometri al secondo.

Teoria corpuscolare e ondulatoria della luce


Per la civiltà umana fondata sull’essere la teorizzazione del nulla ha da sempre avuto poca fortuna. Nasce da qui l’esigenza tutta aristotelica di pensare ad una presenza anche quando verrebbe più comodo dire che si tratta di assenza. L’etere assolve a questa funzione: definisce quello che non c’è ma che attraverso esso, probabilmente si manifesta. Un fatto ottico elementare è quello che indica la propagazione della luce in linea retta. Questa è una affermazione che in qualche modo ci obbliga a ripercorrere il dibattito sulla natura della luce che ha dalla metà del Seicento fino all’avvento di Einstein è stato un dibattito serrata, non privo di contraddizioni e colpi di scena. Etere o non etere, la teoria di Newton accettata fino ai primi dell’Ottocento, si fondava sul presupposto che la luce fosse composta da tanti piccoli corpuscoli sparati da una fonte luminosa. Seconda la teoria dello scienziato inglese, i corpuscoli nel colpire la materia, rivelavano la natura della luce. Considerato che Isac Newton nel 1676 attraverso il suo esperimento del prisma era riuscito a dimostrare la scomposizione della luce bianca del Sole, la sua tesi sulla natura corpuscolare, poteva avere la stessa fortuna.